Quali sono le nuove forme della conoscenza? E che prospettive ci sono per i lavoratori culturali? Sono domande non semplici, soprattutto in un momento dove i lavori di ideazione sono in profonda trasformazione e tendono a essere pagati sempre meno. Domande che sembrano fatte apposta per Bertram Niessen, docente, autore e progettista dai molteplici interessi e campi d’azione, nonché ideatore e project manager di cheFare, un premio da 100.000 euro destinato a progetti di innovazione culturale.
Dal tuo punto di vista, cosa è cambiato nel modo di comunicare?
Stiamo prendendo coscienza solo adesso delle potenzialità del racconto, c’è una sovrapproduzione di figure in grado di raccontare e comunicare. Questa cosa è esplosa negli ultimi due anni, siamo in una ipernarrativizzazione di quello che succede e sostanzialmente si tratta di un modello americano importato. Da un lato è un fenomeno positivo, ma può esserci l’effetto “fiamma di ritorno”: è difficile integrare strumenti critici in una comunicazione semplice, lineare, intrigante, sexy. Da qui la proliferazione di fenomeni di banalizzazione sempre più diffusi e intossicanti.
Un tuo articolo su “Doppiozero” si intitolava provocatoriamente “Le idee non valgono niente” e metteva il dito su una piaga molto sensibile per chiunque lavori in ambiti legati a creatività, innovazione e progettazione…
In quell’articolo segnalavo come se anche se fosse vero che il 90% di quello che si trova online è immondizia, l’impatto del restante 10% sta comunque cambiando la sfera della cultura. Nel mondo ci sono 20 milioni di blog che producono regolarmente buone idee. È proprio questa abbondanza che le rende senza valore economico immediato. L’abbattimento dei costi è iniziato con la musica, poi è toccato all’editoria, alla foto… Ogni piattaforma tecnlogica disponibile sul web ha abbattuto la soglia dei costi e il surplus cognitivo che ne è derivato ha abbattuto il valore del lavoro delle persone.
E’ un processo irreversibile? E questo valore disperso come può essere recuperato?
Esistono forme di distribuzione tipiche del capitalismo selvaggio, con un valore prodotto collettivamente e non re-distribuito. Però esistono anche forme di riappropriazione collettiva: penso a wikipedia, all’open design, ai makers. Per fare questo occorre trovare nuove formule legali, sociali, organizzative ed economiche. Un buon esempio in questo senso è l’impresa sociale. E poi, sul tema di come si produce il valore immateriale e si distribuisce, un ruolo fondamentale può giocarlo il peer to peer, una nuova forma sociale, facilitata dalla tecnologia, in cui le persone si aggregano per produrre valore con istituzioni nuove di organizzazione “tra pari”.
Il web è quindi un moltiplicatore di conoscenza?
Le nuove tecnologie non portano automaticamente più conoscenza. Però portano una conoscenza nuova. Nella rete c’è anche molta stupidità, ma è emozionante stare dentro a questa trasformazione. Ci sarà uno sviluppo positivo se saremo in grado di sviluppare modelli di gestione sociale della conoscenza. Nel frattempo, grazie all’avvento dei social network, è arrivato a compimento il processo di individualizzazione e personalizzazione estrema della società moderna: la sovrapproduzione di sé è diventato il più formidabile strumento di irreggimentazione del valore. Tutto questo è stato messo a regime da piattaforme legate al web.
In che direzione sta andando la progettualità?
In una società sempre più complessa, la necessità di progettare aumenta. Viviamo in un mondo iperprogettato. Il che comporta diverse sfide interessanti come l’interdisciplinarietà, ovvero trovare il modo di far confluire metodologie progettuali diverse. Va detto che progettare è una cosa molto costosa, ed è difficile farla riconoscere.
Servono quindi profondi cambiamenti culturali…
C’è bisogno di superare vecchie barriere e far sposare l’atteggiamento critico/speculativo con la tradizione scientifica e tecnologica. Ancora oggi chi lavora in ambito umanistico fatica a riconoscersi in una dimensione progettuale “spinta”, mentre nel mondo tecnologico c’è a volte una certa piattezza della cultura critica. E poi manca una forte attenzione intorno alla parola scritta: non abbiamo più una cultura dello scritto (e, a dire il vero, neppure dell’oralità).
In questo quadro, l’Italia come si colloca?
Nell’ambito dell’innovazione è decisivo affrontare il presente con altri strumenti. L’Italia, “eterno Paese moderato”, non consente la connessione e la trasmissione di questi tipi di ricchezza. Questa catena, da sempre debole, si è spezzata con la crisi. E’ un fenomeno soverchiante, che si è acuito con la fuga dei cervelli: se n’è andato un numero impressionante di persone realmente innovative, quelle che sono culturalmente preposte a spingere le cose verso il limite.
Ci sono grandi tendenze che si stanno imponendo?
Nell’evoluzione sociale e storica di questo periodo ci sono tre grandi tendenze all’opera: la recrudescenza della propria identità, che si esemplifica nel fondamentalismo religioso; il declino del modello illuminista, ossia del progetto di modernità più “classica”; e poi intravedo gli albori di una nuova forma di umanesimo laico, vissuto con un approccio gnostico e sostenuto anche da una ricerca scientifica.
Quale futuro vedi per l’editoria?
L’editoria è un mondo tradizionale, che sconta un’incapacità di leggere le trasformazioni sociali, con lo scollamento tra realtà dei processi produttivi materiali e gli studi e le visioni che si producono. Sicuramente c’è una messa in crisi dell’idea di autore. Stanno nascendo figure completamente diverse, come i curators, che hanno un approccio progettuale molto diverso. Il futuro lo vedo legato alla performatività: come è già avvenuto nella musica e nel giornalismo, il valore economico si orienterà sempre di più verso la performance dal vivo. Per dirla con Bruce Sterling, i concerti sono i nuovi contratti di registrazione, gli eventi sono i nuovi giornali e, in qualche modo, il crowdsourcing diventerà lo strumento per la redistribuzione di beni e servizi.
Come al solito un ottima scelta dell articolo. Bisognerebbe trovare il modo di diffondere meglio le idee positive sul cosa fare per migliorare.
Hai ragione Emanuele. Comunque blog e social network sono un buon punto di partenza 🙂