In molte aziende ci si accosta allo storytelling con un’aspettativa enorme – pensando di aver trovato la “formula magica” che risolve tutti i problemi di marketing – o con uno scetticismo eccessivo – considerandolo un fenomeno effimero e di moda, senza alcuna concretezza.
Entrambe le estremizzazioni sono sbagliate: lo storytelling è uno strumento efficace, e come tutti gli strumenti utili e ben congegnati offre molti vantaggi. Ma ha anche dei limiti.
Iniziamo allora a inquadrare la questione correttamente, partendo dalle basi.
Chi è il vero protagonista dello Storytelling
Come il protagonista di un discorso non è chi parla, ma il pubblico che l’ascolta , allo stesso modo il protagonista della narrazione di brand o aziendale deve essere il lettore, non il brand o l’organizzazione stessa.
Il motivo lo spiega bene in un suo articolo Daniele Ciacci:
Spesso, il primo errore nell’implementazione di uno storytelling aziendale coeso ed organico sta nella definizione del brand all’interno della narrazione. La faccio semplice: se il brand è l’eroe della storia, il protagonista principale, il centro di gravità della trama, la storia non piacerà. O meglio, potrà anche piacere, ma finirà con mancare di un ingrediente chiave: la potenza dell’immedesimazione.
Per farla ancora più semplice: l’azienda è il perno della storia, ma l’obiettivo non deve essere l’autocelebrazione, quanto creare una connessione forte e diretta con il proprio pubblico.
Non bisogna mai dimenticare che chi si avvicina a un brand lo fa sempre spinto da una precisa domanda: “Perché dovrei acquistare da te?”
Ed è qui che lo storytelling può dare una grossa mano: se riesci a rispondere a questa domanda con una storia vera, coerente e credibile, sei in grado di accorciare la distanza e costruire la fiducia di quel potenziale cliente.
Esempi di Storytelling che aumentano la fiducia nel brand: The North Face…
Una storia di brand non è scritta da un’entità divina, sulle tavole della Legge. È prodotta e ispirata dalla presenza di persone che partecipano, creano, collegano e sviluppano un percorso (anche narrativo) di crescita e successo. E la storia non è fine a se stessa, ma si connette direttamente con il pubblico di riferimento.
Come segnala Neil Patel in un bel post che ti consiglio di leggere, The North Face è un brand che riesce a entrare in connessione con persone attive e intraprendenti: l’idea che persegue sempre, con la massima coerenza, è ispirare l’avventura e la vita all’aria aperta.
Il mantra di The North Face è “Non smettere mai di esplorare”. Tutta la storia del marchio comunica questo ideale, lo fa risuonare in chi lo condivide, facendo nascere il desiderio di partecipare attivamente a una grande impresa sportiva e umana.
Quando un brand riesce a creare un collegamento così potente, di fatto ha vinto, perché i clienti ogni volta acquistano non solo un prodotto ma una parte della storia del marchio.
…e Patagonia
Curiosamente, questo concetto è esemplificato alla massima potenza da Patagonia, un brand concorrente diretto di The North Face.
In questo caso il posizionamento attivista dell’azienda passa attraverso un intreccio indissolubile tra i prodotti che si acquistano e si indossano e le storie che evocano e raccontano. Storie in cui ci sentiamo fin da subito i protagonisti. Sono dichiaratamente “storie che indossiamo”, perché raccontano molto della nostra vita e della filosofia del marchio.
Il trucco è che… non c’è trucco: c’è la coerenza di un impegno portato avanti negli anni e nei decenni, con l’invito ai clienti a utilizzare il più possibile i capi acquistati e ad aggiustarli, con il ritiro e il riciclo degli abiti usati, con il sostegno economico a gruppi ambientalisti, con l’autotassazione dell’1% delle vendite per la tutela e il ripristino dell’ambiente naturale.
Tutto questo rende il brand Patagonia credibile. Unico.
E ci porta a toccare anche quali possono essere i limiti dello Storytelling.
I limiti dello Storytelling: non sempre l’approccio narrativo è quello migliore
Intanto è bene ribadire che lo Storytelling non è per tutti e non è buono per tutte le occasioni. Non si basa su semplici spunti narrativi e suggestioni emotive, ma vive e funziona solo come visione strategica di lungo periodo.
È una scelta molto impegnativa e che non si improvvisa, perché richiede a un’azienda capacità di autoanalisi, molto coraggio nel prendere una posizione precisa e una grande coerenza con i valori che si comunicano come parte integrante della propria storia.
Se non ci sono queste condizioni di base, è meglio lasciar perdere: ben che vada, si riuscirà a produrre qualche spunto interessante, ma che resterà un po’ fine a se stesso.
C’è poi un altro aspetto da considerare.
Ci sono momenti, contesti e situazioni dove è preferibile non utilizzare la storia come principio organizzativo della comunicazione.
Può avvenire quando presentare un insieme di fatti con una narrazione aiuta il nostro pubblico a identificarsi, ma rischia di portarlo fuori strada rispetto alle informazioni che deve conoscere per poter capire quanto vogliamo comunicare.
Per esempio, la particolare situazione di un mercato, le caratteristiche di un nuovo prodotto, l’andamento finanziario dell’azienda: sono tutte situazioni che per essere spiegate con chiarezza necessitano non tanto di strumenti narrativi, quanto di informazioni precise, confronti dettagliati, diagrammi, tabelle e schemi.
In questi casi, uno stile più classico, documentario e informativo, è molto più funzionale nel centrare l’obiettivo. E, oltretutto, se ben sviluppato, riesce a esprimere comunque un apprezzabile valore narrativo.
(Photo credits: Patrick Hendry on Unsplash)