Le persone che mi seguono spesso sono in disaccordo con me

Per un blogger, intervistare Matteo Flora è come per un alpinista scalare il Cerro Torre o per un ciclista fare le rampe del Tourmalet. Insomma, è un’impresa. Ma ne vale la pena, perché ti porti a casa tante cose non banali su temi importanti come i video, l’hacking, la reputazione online e il giusto modo di interagire con la rete.

Allacciati le cinture e tieniti forte. Si parte.

Chi è Matteo Flora? Un hacker, un guru, un nerd, un docente, un opinion leader, un imprenditore digitale? Un mix di tutte queste figure?

Nasco in quel sobborgo dell’IT che è l’hacking. In realtà, all’interno di una sottocultura hacker. L’hacking è un modo diverso di approcciare la risoluzione dei problemi. Mettila così: quando le cose non vanno bene, in genere trovi tre tipi di persone. Quelle che si sacrificano per migliorare una causa (gli attivisti); quelli che si lamentano, che sono la maggioranza (in genere, se ti lamenti di qualcosa sei parte del problema e non della soluzione). E poi ci sono gli hacker. Gli hacker sono abbastanza pigri da non voler ripetere delle cose e abbastanza critici per dire “non mi sta bene come sta funzionando”. E, in genere, trovano soluzioni alle cose che cercano…

Però l’hacker, nella comune accezione del termine, è quello che ruba i dati, il criminale informatico…

Sono d’accordo con te. In Italia è rappresentato tanto dalla sicurezza informatica, ma siamo un po’ un’eccezione a livello mondiale. In realtà, storicamente, l’hacker è colui che sovverte dei sistemi. Non “buchi” il sistema, quasi sempre trovi un ingresso alternativo  a cui nessuno aveva mai pensato. Fin da quando ero piccolino papà mi diceva che se sei seduto al tavolo dove sei il più intelligente, hai sbagliato il tavolo. In questo modo, invece di sentirti inadeguato, cogli l’opportunità di migliorarti. A me crescere all’interno di questa cultura ha aiutato davvero tantissimo.

Raccontaci ancora qualcosa del tuo percorso: come ti sei formato, quali esperienze ti hanno fatto crescere, dove sei adesso…

Ho iniziato a programmare nei primi anni delle elementari. Per la precisione, ho avuto il primo Commodore 64 in seconda elementare e il primo gioco per Commodore in quinta. Nel frattempo programmavo…

Nasco all’interno di quel mondo. Da sempre mi muovo all’interno del digitale (sono stato il più giovane direttore IT italiano di una web agency). Anni fa mi sono specializzato in quella parte di sicurezza informatica che viene chiamata “Computer forensic”, a supporto alle indagini di polizia prima, e poi a supporto dei contenziosi. Ho fatto il consulente tecnico per i Pubblici Ministeri in grosse cause (Santa Rita, Cirio e Cragnotti, solo per citarne alcune). Nel frattempo mi sono sempre trovato in quella posizione a metà tra osservare la Rete e fare comunicazione.

Quando hai fatto il salto?

Con l’esplosione dei social media ho unito le cose, facendo social media monitoring e web monitoring, che adesso conta molto di più di un’indagine statistica o di un focus group, perché puoi vedere davvero cosa pensano le persone. Nella pratica di tutti i giorni, le persone condividono la loro vita. E condividono spesso la loro vita con un brand.

In che modo?

Le persone online non parlano di Coca Cola: parlano di loro stesse, raccontando(ti) in una sorta di continuo flusso di coscienza. In vari momenti della loro vita si intersecano con te brand. Raccontano la loro vita e come questa viene a contatto con un brand, una persona, un prodotto, un servizio. Una buona parte di tutto questo è monitorabile e gestibile.

E oggi di cosa ti occupi?

Io lavoro su una serie di incubatori, per applicare a delle startup le stesse metodologie che ho utilizzato qui, nella mia Società The Fool. Ho anche altre Società a Roma e sono parte di un gruppo affiatato di hacker italiani che si chiama Hermes, il Centro Studi Trasparenze Diritti Umani Digitali, con cui si fanno una serie di iniziative davvero importanti a livello mondiale (GlobaLeaks è il sistema di whistleblowing anonimo più utilizzato al mondo ed è realizzato e finanziato da Hermes).

Nel frattempo faccio tanta divulgazione. Perché? Perché sono pigro: dove trovo chi dice queste cose ti linko chi lo fa; quando non lo trovo, mi metto a chiacchierare…

Parlami ancora un attimo di The Fool: in cosa siete specializzati?

L’ultima rivoluzione è di un anno e mezzo fa con l’Intelligenza Artificiale. L’IA ti consente già di analizzare e clusterizzare le persone in gruppi per spostarti su una Data Driver Strategy, una strategia basata sui dati. Puoi ricostruire le buyer personas in modo estremamente sofisticato.

Per ciascuno di questi profili di potenziali clienti (noi li chiamiamo stakeholder, portatori di interesse) tu puoi sapere di che cosa parlano, come sono orientati verso di te, come sono orientati verso i competitor, chi seguono e quindi chi sono i loro influencer, (quelli che riescono a fare accadere delle cose presso i loro portatori di interesse), dove se ne parla. Vedendo di che cosa hanno parlato, di cosa si interessano, quali sono le cose che hanno modificato la loro opinione, dove si approvvigionano di informazioni e chi seguono, puoi creare per ciascuno di loro strategie basate sui dati.

Tutto questo ha a che fare con quello che chiamiamo reputazione?

Esatto. Ma quando qui dentro parliamo di reputazione, intendiamo la percezione data dai discorsi degli stakeholder. La percezione è come tu vieni visto da quello che dicono gli altri. Cosa che può non avere a che fare con la realtà. I discorsi avvengono su cose che fai tu e su cosa ti accade intorno, e sono diversi per ogni stakeholder. La comunicazione di reputazione per ciascun stakeholder crea messaggi adeguati che fanno in modo che parlino di te. Questo è ciò che facciamo qui.

Sono strabiliato dal fatto che con questa mole di impegni tu riesca anche a fare un video al giorno…

E’ faticoso, ti confesso che è faticoso. Baro un pochettino: nei week end riesco a portarmi avanti con un polmone di 2-3 video. Ho cercato di ottimizzare i tempi di realizzazione: in genere va via un’oretta e mezza, tempo che sottraggo al sonno e al cibo.

Ho un po’ di cose da dire che non ho trovato da nessuna parte. Non ho abbastanza tempo per scriverle tutte (sono troppo perfezionista). Col video mi sono dato più possibilità. Hai visto il tenore con cui faccio i video, che è molto colloquiale: è esattamente come stiamo chiacchierando io e te adesso. Vedo che riesco a passare più concetti così. Ho fatto una lista delle cose che mi piacerebbe fare e, secondo me, in 9-10 mesi dovrei finire tutte le cose che avevo da dire.

Qual è l’obiettivo del tuo progetto? Fare Personal Branding o punti a qualcosa di più ampio?

No, in realtà quello che voglio fare si chiama “memory dump” scaricare tutto quello che ho in testa.

Sei in download, insomma… (risate). Dovendolo raccontare in estrema sintesi: di cosa parli? E’ corretto dire che spieghi agli imprenditori come utilizzare meglio la loro presenza sul web?

Voglio spiegare agli esseri umani come interagire con la rete. Il concetto stesso di “usare la rete” è sbagliato. Io non ti insegno a usare un telefono. Io ti insegno il metodo, che ho trovato nella pratica, con cui puoi usare un telefono nella vita di tutti i giorni. Ti dico le cose che la rete ti abilita a fare. Tu vivi nella rete. Ti documenti con la rete.

Gli imprenditori, certo, sono una delle realtà che devono imparare a utilizzare i meccanismi di vita nella rete per evitare di fare disastri. Una cosa su cui vado a insistere tanto sono i fail, dove qualcosa è andato storto.

A che pubblico ti rivolgi?

Son partito a fare video cercando di coinvolgere tutto un gruppo di persone che non conoscevo, per farle avvicinare al mio mondo e a un modo diverso di approcciare la rete. Il mio obiettivo era di beccare un’ampia fetta di utenti medi. In realtà, buona parte di quelli che mi seguono sono upper class e clienti.

Ma hai cambiato anche pubblico di riferimento? Te lo chiedo perché mi ha colpito come in certi casi parli direttamente alle aziende, mentre in altri il discorso diventa molto più generale…

Ho sperimentato tantissimo. In più di 100 video pubblicati, ho cambiato 5 volte il modo di fare i video. Arrivati alla settima generazione saranno giusti come voglio…

Secondo me c’è un sacco di gente convinta che ci sia molta più strategia dietro quello che faccio di quanta ce ne sia in realtà. Ci sono contenuti che sono usufruibili da diverse parti: ho provato a tirare una serie di ami in varie direzioni, per vedere cosa funzionava e cosa no. Alla fine le persone che mi seguono spesso sono in disaccordo con me. E lo scrivono nei commenti. Mi seguono dicendo: “mi fai pensare. Mi va di ascoltarti, anche se non sono d’accordo con te, però mi fai pensare sul perché”. Preferisco avere 8.000 visualizzazioni di un video da persone che sotto ti fanno delle belle contestazioni di metodo, con citazioni importanti, piuttosto che 35.000 di un pubblico che non interagisce.

In un certo senso fai evadere la gente dai social, fai saltare quella specie di bias cognitivo per cui sono circondato solo da gente che la pensa come me…

Mi arrivano decine di messaggi, e io imparo da quello. Una persona oggi mi ha scritto: “Finalmente un video che spiega come agire e perché agire, invece di predicare ai convertiti”. Mi accorgo che io stesso sono dentro nel cultural bias, e spesso predico ai convertiti. Mi sto spostando sempre di più nel capire perché si fanno determinate cose e qual è l’obiettivo finale.

Questa settimana sarà dedicata quasi tutta al problema della fake news e dell’odio online. Occorre evitare un concetto di normalizzazione dell’odio. La cosa più pericolosa non è avere il tizio che può venire a insultarti, averne cento, mille… Il punto è evitare che l’odio online, come succede in certe community di ragazzini in questo momento, venga normalizzato.

Esiste una percezione che manca a noi del baratro, il baratro tra dove finisco io e dove inizia internet. Le persone non capiscono che la visibilità di quello che loro scrivono sulla rete è potenzialmente infinita. Quello che tu fai per fare shaming, per mettere alla gogna le persone, non è insultarle o farle insultare, è modificare la visibilità endogena di un determinato tipo di contenuto. Un contenuto che era nato per essere visto con 10 amici, ti faccio vedere cosa succede quando lo vedono in 5 milioni. Non sono d’accordo con quelli che ti dicono: Internet è come la realtà. No, cambia sempre il sistema di comunicazione.

Facci un esempio di un pericolo in rete di cui possiamo essere ignari…

Uno dei modi in cui puoi mandare in bestia una persona, facendo sbroccare anche un professionista, è quando gli fai fare un corso dicendogli anche che c’è uno streaming online. La persona non si accorgerà dello streaming. Uscirà dal seminato, farà delle battute che non farebbe con duemila persone online. Eppure, teoricamente, ha un pubblico che possono essere milioni di persone. Se è registrato, miliardi di persone. Potenzialmente tutti potrebbero vedere quello che tu fai.

Questa modifica della visibilità non è un meccanismo biologico. E’ un sacro terrore che va instillato a tutta una serie di generazioni. Negli immigrati digitali, quelli che non nascono digitali, ma che lo diventano (me, te, un po’ tutti) va instillato il sacro terrore per evitare lo shaming. Sui ragazzini va evitata la normalizzazione.

In effetti nei tuoi video si nota una profonda sensibilità verso temi etici e sociali. La faccenda quindi si complica ulteriormente…

Perché sono una persona complicata. C’è un livello basso, dove usi la rete, e c’è un livello dove vivi la rete. Sono due livelli diversi. Io mando una mail ma coesisto in una comunità in cui la mail ha delle regole. Simon Sinek ha fatto un video dove parla dei Millenials, e dice che hanno bisogno di una “instant gratification”. La gratificazione istantanea è quella che cerca la rete. Il gattino, o la cosa di un minuto che ti fa vedere che ho salvato il cane dalla strada e ti fa vedere come è diventato due anni dopo. Funziona. Ma non ti fa pensare.

Un livello un attimo superiore è quando scatta il meccanismo per cui dici: ”Aspetta, non è solo come faccio a fare (o a evitare di fare) una cosa, ma è perché”. Poi c’è un livello ancora più sofisticato, dove ad esempio si spiega perché la normalizzazione di certe cose può diventare molto pericolosa.

Come concepisci il video?

Sono partito perché Marco Montemagno diceva: “Per abilitarti devi fare un video al giorno”. E io, di uno che è arrivato dove è arrivato lui, mi fido. Ma non ho fatto i video per posizionarmi in qualche modo, né come necessità di obiettivo di business, se no li avrei concepiti in un altro modo, con l’azienda. Sono partito perché, come ti dicevo prima, dovevo fare del memory dump. Il video è uno strumento strano. Teoricamente ha una soglia d’ingresso ancora più bassa del leggere. In realtà abbassa il livello.

D’altra parte, mi accorgo che tanta gente iperimpegnata usa il video come escamotage per guadagnare tempo. Io ho un sacco di gente che mi ascolta nel podcast. Qualcuno mi ha scritto: “Volevo dirti che alla mattina mi fai compagnia mentre porto a pisciare il cane”. Ma ci sta. E’ il motivo per cui buona parte dei miei video sono fatti non per essere guardati, ma ascoltati. Tanta gente ti dice “io ti ascolto, non ti guardo”.

Un video al giorno: è un desiderio, una necessità, un divertimento, un obbligo, una condanna?

Oramai fare i video è diventato un fenomeno di massa. Va bene, partono in tanti e vediamo chi sopravvive. Come per i blog. Io ho un blog dal 1997. L’ho aperto perché mi interessava, non perché mi serviva per questioni di posizionamento. Io il posizionamento l’ho subito. Io sono pigro. Se scrivo è perché non ho trovato da nessun altra parte qualcuno che ha detto la stessa cosa, da poterlo linkare. Io uso il video come uso il blog. Con la differenza che il mio non è un vlog. Anche se mi sono accorto che a tante persone piace vedere la mia vita.

Che cosa stai imparando da questa esperienza, da questa palestra?

Ho imparato a capire come le persone mi seguono, a capire cosa interessa ad alcune persone e sto avendo un sacco di soddisfazioni, a livello personale e a livello di contatti,  più di quante sarei stato io in grado di incontrarle… E’ un successo economico? Boh, sì, anche, abbiamo preso un po’ di clienti che vogliono questa visione. Quindi funziona.

Scrivi un testo o vai a braccio? Hai un piano editoriale (immagino di sì)? E come lo hai strutturato?

Vado a braccio. Nel weekend butto giù una lista dei temi che mi piacerebbe affrontare. Adesso il problema non è tanto trovare i temi di cui parlare, quando smaltire la coda di temi e video già fatti. Sto cercando di avere delle settimane dedicate a degli argomenti, in una sorta di filo conduttore. Però non c’è un piano editoriale e non c’è uno script, è tutto a braccio e oramai riesco a registrare senza tagliare nulla: lascio anche gli strafalcioni perché ho visto che piacciono! Piace di più che io racconti piuttosto del ritmo sincopato. Tendo a fare solo tre punti per video, che definisco prima, visivamente, in una sorta di mappa mentale.

Che consigli ti senti di dare a chi vuole costruire o rafforzare la propria identità online?

A questa domanda è facile rispondere, perché è quello che facciamo per una serie di manager, creiamo reputazione, facciamo quella che si definisce “reputation design”. Il consiglio che mi sento di dare è… fare il contrario di quello che faccio io! Devi focalizzarti il più possibile, devi posizionarti e avere una verticalità in cui ci sono al massimo tre argomenti. Se parli di contenuti, parli di generazione di contenuti, di come scegliere i contenuti più adeguati e di come creare un tipo di contenuti particolari (come gestirli). Se devi costruirti una personalità, è la cosa che funziona meglio.

L’altra cosa è essere vero con te stesso, cioè essere quello che sei, non costruire a tavolino una personalità diversa. E’ la cosa che piace di me nei video, le persone che mi conoscono mi dicono: “Sì Matteo, sei tu”. E poi creare abitudini: apro tutti i video con “Ciao Internet” e li concludo con la massima evangelica “Estote parati”. E poi costruire delle rubriche fisse. Creare, costruire delle abitudini. Fare un formato e mantenerlo. Hai deciso di avere tre argomenti e ne vuoi cambiare uno? Bene, ma lo fai dopo sei mesi. Mai stravolgere tutto. Io sono l’esempio pratico del violare tutte queste regole. Ma perché? C’è una motivazione. Perché a me non interessa costruire la mia reputazione in quel modo, mi interessa sperimentare.

Che consigli ti senti di dare a chi vuole cimentarsi con i video?

In 21 giorni crea un’ abitudine. Se riesci a tenere per 21 giorni qualcuno legato a te, hai vinto. Perché diventa un’abitudine consolidata, diventa parte della tua routine giornaliera.

Come ti sei organizzato dal punto di vista tecnico? Sei un perfezionista o hai un approccio minimalista?

Io faccio tutto da solo: girato, montaggio, luci. Serve un microfono, una macchina con un display, in modo che ti vedi. Va benissimo anche il cellulare: in questo caso spendi 20 euro in più e applichi un adattatore di ottica, quella cosa che ti permette di passare dai 35 millimetri (che sei troppo vicino) al 22 che è perfetto. Io uso un bluescreen dietro, ma se hai gli occhiali è un casino. Poi serve un programma di editing. Se hai un Mac, basta iMovie.

Un’ultima domanda: se tu dovessi dire in due parole la cosa più grossa che hai imparato con i video?

Tutta una serie di difetti. Miei. Devi esporti al giudizio delle persone anche sui tuoi difetti. E’ un’opportunità eccezionale per imparare su di te. E migliorarti. E’ un modo meraviglioso per confrontarti sulle idee, ma anche su di te, sui tuoi modi, su come pensi… E’ una cosa in cui puoi ricevere altrettanto rispetto a quello che dai. Anzi, spesso ricevo molto più di quanto do. Sto imparando un sacco, mille cose, e non mi affeziono alle idee: se sbaglio, lo dico tranquillamente e cambio sistema. Non voglio mai smettere di sperimentare.

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