Le marche ci aiutano a vivere meglio? Sì, se sono Super Brands.

Sergio Tonfi_Super Brands

La nostra è un’epoca oramai guidata da aziende e algoritmi? E il vuoto lasciato dalla politica e dalle ideologie è stato riempito dalle marche? Sono domande importanti, che meritano una riflessione e un tentativo di risposta. Domande che costringono a considerazioni anche critiche e provocatorie. Domande che sono andato a porre direttamente a Sergio Tonfi, autore di un libro, non a caso, intitolato “Super Brands. Da grandi poteri, grandi responsabilità” (Franco Angeli).

Ecco cosa mi ha raccontato.

Facciamo subito chiarezza. In concreto, cos’è un Super Brand? E quali sono le caratteristiche che hanno in comune tutti i Super Brands?

Il Super Brand è un marchio che ha conquistato il cuore delle persone grazie a tre caratteristiche: innovazione, autenticità e responsabilità. Innovazione è una parola nota e persino abusata, ma qui parliamo di innovazione rilevante, quella fatta per creare soluzioni reali ai problemi della gente. L’autenticità è una parola relativamente nuova nel mondo del business e nasce sotto la spinta dei social media e del mondo di internet: chi frequenta il web vuole guardare attraverso “le bottiglie di vetro”, in trasparenza, vuol sapere come è fatta e come si muove un’azienda. La terza parola chiave è responsabilità, ossia andare oltre il compito economico che ogni azienda ha, per restituire all’ambiente e alla società qualcosa dei “grandi poteri” di un Super Brand.

A proposito di responsabilità, a quale grandezza di scala si colloca? Mi viene più facile pensarla a livello di comunità locali…

Non è una questione di scala. Il Super Brand può essere l’azienda global che opera in tanti mercati: in questo caso l’impatto sulla qualità della vita della gente è evidente. Ma vale anche per le aziende di nicchia, che hanno un target più ristretto e definito, e per quelle che si muovono in una realtà locale. Gli italiani in questo sono maestri, basti pensare a Olivetti, Ferrero, Barilla: in questi casi l’azione di un Super Brand sul territorio genera una community fortissima, e la responsabilità assunta dal brand ha una visibilità evidente. Tra l’altro questo ci conferma che Super Brand non è una nuova moda, la parola del momento, ma una caratteristica connaturata nel modo sano di fare business, spesso legato alle scelte dell’imprenditore. Può essere appannaggio delle grandi Corporation, che abbiamo sempre guardato con sospetto e che oggi meritano invece di essere considerate come parte indispensabile nella ricerca delle soluzioni ai problemi del mondo. Ma anche di realtà più piccole, quando sono guidate da leader illuminati.

Basta la molla di un eventuale maggiore ritorno economico per spingere un brand a volersi trasformare in Super Brand, o ci vuole altro?

La molla economica c’è, ed è giusto che sia così. Gli investimenti che un’azienda fa sul brand devono avere un ritorno economico. Ed è evidente a tutti che più un brand ha un’elevata reputazione, più è considerato appetibile dal punto di vista degli investimenti finanziari, più accresce il proprio appeal come posto di lavoro… Per non parlare dei clienti, che accettano di pagare anche qualcosa di più per un brand che fa le cose seriamente, in termini di qualità di prodotto, certo, ma anche andando oltre, facendosi carico di responsabilità più allargate in ambito sociale e ambientale. Come succede ad esempio per Lavazza (non a caso, Superbrands of the year 2018), impegnata ormai da anni in Sud America a costruire delle comunità autosufficienti, in modo che il contadino produca il miglior caffè possibile ma, al tempo stesso, ricavi un reddito sufficiente a garantirsi una miglior qualità della vita.

Progetto Sostenibilità di Lavazza_Sud America

Oggi si parla sempre più spesso di brand activism, cioè di brand che decidono di prendere posizione su temi politici e sociali. Con questi “sconfinamenti” di campo, non c’è il rischio di apparire enfatici e, tutto sommato, poco credibili? Molti potrebbero interpretare il tutto come una trovata di marketing un po’ furbetta e opportunistica o, al polo opposto, come un concetto intriso di uno stucchevole “buonismo”…

Ti confermo che oggi i brand sono un soggetto politico: nel senso che ricoprono un ruolo sempre più rilevante nel vuoto istituzionale che si è creato. Essendo soggetti politici, devono però prendere una posizione precisa. Devono avere qualcosa da dire di forte e utile. E quando si “schierano”, devono sapere che ne traggono vantaggi e svantaggi. Polarizzano. E’ decisamente arrivato il momento in cui un brand che vuole giocare una partita da protagonista (in fondo stiamo parlando di Super Brand!) si schieri e scelga il campo in cui vuole giocare e il ruolo che vuole avere. E’ anche una scelta di marketing? Qualche volta sì, ammettiamolo: ma la scelta di schierarsi paga.

Fammi qualche esempio...

Un ottimo esempio è quello di Dove, un brand che si è schierato, in anticipo sui tempi, dalla parte delle donne e a favore dell’autostima femminile, abbandonando l’aspetto tipico canonizzato dalla moda. Dove ha fatto una scelta coerente con il suo core business ed è diventato il riferimento di quel mercato. Altro grande esempio: Budweiser, che ha fatto una bellissima campagna rievocando la storia del suo fondatore che era un migrante (del resto, gli americani sono tutti migranti). E l’ha fatto proprio nel momento in cui Trump dichiarava la sua volontà di elevare muri per tenere lontani i migranti. Ecco, queste prese di posizione servono a costruire identità e fiducia (altra parola chiave) tra l’individuo e il brand. Questa è la molla per continuare a essere rilevante in un’epoca sempre più connessa e complessa. Devi fare scelte coraggiose. Lo dico sempre: i Super Brand non si accontentano di cose medie, normali. Scelgono sfide nuove, che hanno anche dei costi, che richiedono cambiamenti e nuovi investimenti produttivi. Ma sono scelte che ripagano e che accreditano come leader. L’alternativa è quella di perdere senso: la “media” non funziona più per nessuno.

Secondo te funzionano le “storie di marca”? E come vanno raccontate?

Lo storytelling ha una potenza narrativa indubbia nel comunicare una marca. Ma deve essere costruito sulla realtà: fai le cose e poi dici di averle fatte. Purtroppo ci sono molte marche che fanno cose davvero belle, ma poi non hanno il coraggio, la voglia o la forza di comunicarle e di farle emergere. E questo è un vero peccato. Perché sono storie che arricchirebbero, di molto, la loro reputazione di brand. Dobbiamo trovare modi nuovi di far emergere queste storie. Di dare spazio e vita a racconti ricchi e coinvolgenti. La gente oggi vuole “comprare” idee, storie, marche, non solo prodotti. Ma bisogna capire che raccontare storie complesse e coinvolgenti (come quelle legate ai temi della sostenibilità) è più difficile, e richiede tempi più lunghi. Costruire solidità di marca è però un imperativo: devi crederci, insistere, essere determinato. Questo è il coraggio del Super Brand. Il coraggio di guardare avanti, indipendentemente dalle turbolenze di mercato, per costruire un futuro migliore.

La critica può sorgere, a volte, proprio all’interno delle grandi aziende. Mi ha colpito molto Jessica Powell, che è stata vicepresidente della Comunicazione di Google, dichiarare in una recente intervista (non a caso intitolata “L’ammutinata di Google”):“Vivevo sempre in questa retorica sopra le righe della santità della Silicon Valley: aziende con la missione di cambiare il mondo, convinte di fare il bene dell’umanità. Oggi si sentono assediate, vittime di un’ostilità ingiustificata. Anche secondo me certe accuse sono esagerate. Ma se non avessero preteso di incarnare il bene assoluto non sarebbe successo: quando fai promesse impossibili da mantenere, prima o poi arriva la resa dei conti”. Cosa ne pensi?

Google è un Super Brand per definizione. Però, quando ti esponi, o diventi troppo importante, la reazione che ottieni è di diventare attaccabile. Diventi troppo potente, e quindi antipatico. In questo caso, Google ha scelto una promessa “over the top”, su scala globale, e si è quindi esposta al massimo attacco. Ma lo stesso vale per tutti i brand che scelgono una mission che va al di là del puro aspetto economico. Una mission che deve essere capace di coinvolgere tutte le tue persone. Non a caso si parla, all’interno dell’azienda, di “religione della marca”: questo serve a motivare di più, a coinvolgere di più le persone, a creare un’adesione che va ben al di là della timbratura del cartellino. Per trasformarsi da collaboratori ad ambasciatori del brand occorre avere dentro una molla ben diversa dalla necessità economica di alzarsi al mattino tutti i giorni per andare semplicemente “a lavorare”. Occorre credere a uno scopo più alto che è una delle caratteristiche distintive dei Super Brands.  

Ma quindi come si devono gestire le relazioni interne, quando si è (o si vuole diventare) un Super Brand?

Le organizzazioni sono il risultato della qualità delle persone che le compongono. I Super Brands devono essere guidati da leader credibili, autorevoli e, se possibile, continuativi, legati a un progetto di lunga durata e non al semplice raggiungimento dei risultati trimestrali. Leader capaci di trasmettere una direzione chiara a tutti, di farsi “amare” e seguire nel percorso di sviluppo e crescita che propongono: ecco perché gli imprenditori che hanno fondato un’azienda e la guidano da sempre sono guardati dai propri dipendenti come un riferimento sociale e personale. Una cosa che qui in Italia è frequentissima e che può fungere da modello di riferimento per chi vuol essere Super Brand.  

E invece qual è il rapporto che le persone oggi hanno con i brand e le aziende? Cosa si aspettano da loro?

Quando parliamo della volontà delle persone di interloquire e dialogare con le aziende, dobbiamo specificare che questo vale solo per una parte delle persone, quella più elitaria – le persone più preparate ed esigenti. Questo è un elemento di forte pressione sull’attività dei brand, anche grazie alla diffusione di utilizzo dei social media. In realtà però c’è ancora una buona parte della popolazione che ha un atteggiamento più distaccato, indifferente e un po’ “furbetto”: che guarda solo ai propri vantaggi individuali. E non ce ne dobbiamo stupire: è facile cedere alle tentazioni dei saldi, degli sconti esasperati, dell’unbranded. Ma il futuro sarà di chi saprà prendersi la responsabilità di proporre una visione condivisa, di fare da guida ed esempio per tutti. Insomma, il futuro sarà dei Super Brands.   

Chiudiamo con una piccola provocazione: non ti sembra che tutti noi ormai abbiamo più potere come consumatori che come cittadini? E come valuti questa evoluzione?

Le persone vorrebbero giocare un ruolo più importante. Ma visto che sul fronte politico e istituzionale si fa più fatica a credere a certe cose, nel mondo dei consumi possiamo giocare ancora un ruolo determinante, perché è cresciuta nel tempo la nostra rilevanza: nel dire quello che pensiamo, nel fare le recensioni dei prodotti, nel dichiarare sui nostri social cosa ci piace e cosa non ci piace. Diciamolo: è una bella prospettiva di speranza che fa parte della nostra società del benessere. Viviamo immersi nei brand, in una dimensione che ci pone, se non proprio sullo stesso piano, almeno in una situazione di aperto dialogo. Ma allora anche noi dobbiamo prenderci le nostre responsabilità come consumatori, premiando i brand che si comportano più seriamente. Che fanno scelte coraggiose e comunicano in modo autentico, usando i loro poteri per creare un mondo migliore, più sostenibile, più giusto e per tutti.

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